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La pietà diffusa dei sedilesi
La festa di San Costantino rappresenta l’apice del calendario morale sedilese. È però anche il culmine del suo faticoso calendario agricolo e pastorale. Si tratta perciò di un momento di fede ma anche di gioia e condivisione terrena, segnato dal tempo della ritrovata abbondanza del raccolto e della speranza di quello a venire.
La mietitura è stata affrettata. Per la ricorrenza tutto deve essere pronto: c’è da offrire al Santo il pane migliore. Quello capace di stupire i viaggiatori ottocenteschi per il suo candore e la sua abbondanza.
E bisogna farne partecipi i poveri, che fino a tutta la prima metà del secolo scorso affluivano numerosi in paese e al santuario. Nella loro pena riluce Cristo e al momento della redistribuzione simbolica delle prosperità dei campi non c’è da escludere nessuno. Come in una sorta di àgape diffusa, quelle riunioni dei primi cristiani nelle quali i poveri della comunità venivano ospitati nelle case in cui c’era abbondanza, in nome della carità e in ricordo dell’Ultima Cena.
Con la differenza che qui è tutto il paese a offrire del suo, indistintamente e pubblicamente.
Kokoi
Né si deve pensare che si trattasse di una carità da poco: ancora allora, il pane, non molto diversamente che presso le più antiche comunità cristiane, era l’alimento principale, quando anche non l’unico. E per averlo si cominciava molto lontano, con la semina, per finire solo un anno dopo, e a volte avere appena di che vivere.
La panificazione della festa aveva inizio fin dal 29 giugno, per San Pietro e Paolo. Occorrevano diversi giorni, perché ogni operazione veniva svolta a mano e scandita dalle pause di lievitazione. Una procedura molto complessa: a suggerirne la laboriosità basti dire che po fai su pani (per fare il pane) ci si alzava a mezzanotte.
Non prima di avere, nei giorni precedenti, proceduto alla pulizia del grano, alla macinatura e alla meticolosa selezione dei suoi diversi derivati, la cui gerarchia determina il pregio dei vari tipi di pane da infornare.
In comune sa madrighe (la matrice), il lievito naturale che feconda i diversi impasti, dal pane bianco fino a quello più scuro, destinato ai cani.
Era un lavoro esclusivamente femminile, e a svolgerlo venivano chiamate a raccolta tutte le donne di casa. Bambine comprese, che osservando e aiutando un po’ iniziavano la loro carriera di future madri di famiglia. Ogni impasto veniva srotolato lungamente sul piano del tavolo, e ancora rivoltato e steso nuovamente. La qualità del pane sarebbe dipesa in buona misura dalla fatica e la sapienza di questi gesti ripetuti.
Su pane ‘e sos poberos (il pane dei poveri) è su zikki ladu: zikki è il nome di una farina scelta, e ladu significa largo, perché spianato fino alla forma di un disco di quaranta centimetri di diametro e pochi millimetri di spessore.
Intanto l’occhio vigile della massaia scruta la cupola del forno: dal colore capisce quando la temperatura è giusta. Nel mentre i dischi di pasta vengono divisi in quattro spicchi dall’orlatura irregolare, chiamati kokois.
Kokoi
Il forno è caldo, e il piano di cottura viene liberato dalle braci. Ma prima di essere messo dentro, su ciascun kokoi viene impresso un simbolo con un timbro di legno, sa marca (il marchio). È una sorta di blasone, che certifica il rango di ciascuna famiglia, da misurarsi non in possesso di terre e bestie ma in nobiltà d’animo. Spesso rappresenta una croce, una stella, un ricamo di fiori. Oppure Costantino a cavallo.
Si procede a una prima cottura veloce, a fuoco vivo. Poi su kokoi viene estratto e tagliato orizzontalmente, le due metà aperte, rivoltate l’una di spalle all’altra e rimesse in forno a biscottare e risaldarsi tra loro.
Alla fine, stanchezza e pani sparsi a raffreddare per tutta la casa. Sui tavoli, sulle sedie, sui letti e anche sotto, involti nei panni bianchi. Il più, riposto in una cassapanca, nella camera nuziale, di modo che i padroni di casa possano regolarne il consumo familiare nei giorni a venire.
Adagiati sulle crobes de zinnia (corbule di asfodelo) stanno invece i kokois per i poveri.
Intanto una piccola folla dolente è giunta in paese.
Le case, pulite e imbiancate a nuovo, fanno mostra di sé, aperte a tutti. La mattina del 5 inizia la questua.
Ci si riconosce, tra beneficanti e beneficati: gli ultimi difficilmente hanno cambiato volto da un anno all’altro, e così i paesani. Il gesto è silenzioso: un pane per ogni povero. Questi ritraeva il braccio teso, infilava la sua conquista nella bertula (bisaccia) e rispondeva “atteros annos!” (“altri anni!”). Come un amen
extra-liturgico, in risposta a questa eucarestia minore, officiata diffusamente dalla pietas popolare prima che dal culto formale. Un Corpus Domini disadorno, povero di apparati liturgici ma ricco di valori simbolici profondi. E di carboidrati capaci di lenire, almeno provvisoriamente, il bisogno altrui.
Nessuno si sottrae dal donare o si sente capace di pronunciare un diniego: quando il pane è terminato, semplicemente la porta di casa viene chiusa.
Tutto questo negli anni cinquanta finiva. I miseri assurgevano al grado di pensionati sociali e la fame diventava parola buona per dire appetito. Intanto la panificazione, perno dell’autarchia familiare, diventava un mestiere a sé stante. Oppure un rito da rinnovarsi in casa solo per la festa: virtuosismo e forma pura, non più sostanza, divenuta ormai superflua. Come la carità del pane, ricordo commosso degli anziani di Sedilo.
Marcas [Timbri]
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